CoVid-19 e terapia anticoagulante

I dati epidemiologici sin qui raccolti in tutto il mondo hanno evidenziato come l'infezione abbia un decorso più grave laddove si manifesti in pazienti in età avanzata e portatori di comorbidità, le più importanti delle quali sono il diabete mellito, le patologie polmonari croniche, l'insufficienza renale e le cardiovasculopatie. Tra queste ultime è emersa anche una azione diretta del virus a livello miocacardico con un interessamento infiammatorio diretto che incide in maniera pesante sulla prognosi dei soggetti colpiti. I primi dati sulle cause di morte su otre 12000 deceduti, analizzati dall'ISS, dimostrano come aumentando il numero delle comorbidità, aumenti parallelamente il rischio di eventi letali.

In questo contesto, appare evidente come la malattia cardiaca possa essere comunemente pre-esistente nel paziente affetto da COVID-19  determinandone la severità. Tra le patologie cardiache, il dato dell’ISS (Figura 1) indica un ruolo molto rilevante per la fibrillazione atriale, spesso pre-esistente al COVID-19, ma anche sua teorica potenziale conseguenza. Molto spesso, infatti, il cuore è vittima specifica dell’infezione virale, verosimilmente per la particolare rappresentazione di ACE2 – enzima convertente l’angiotensina II in angiotensina 1-7, recettore funzionale di SARS-CoV-2 – a livello miocardico, e/o per le tante interferenze tra terapia per COVID-19 ed elettrofisiologia (https://www.sicardiologia.it/public/SIC-Covid-e-QT.pdf) e/o, come vedremo più sotto, con i meccanismi della coagulazione. In questo ambito, la presenza di fibrillazione atriale pre-esistente rende l’anticoagulazione una scelta obbligata, ma non facile. Sia gli antiaggreganti che gli anticoagulanti, anche diretti, infatti, possono presentare interazioni farmacologiche con antivirali, clorochina e/o tocilizumab che ne possono rendere complessa la somministrazione (https://www.covid19-druginteractions.org/ e http://www.anmco.it/uploads/u_cms/media/2020/3/9d06c0877d6eb87b495593d2b0f7ec16.pdf).

La tabella seguente illustra tutte le potenziali interazioni fra i vari principi attivi.

Oltre a ciò, una ancora non nutritissima, ma molto omogenea serie di segnalazioni indicano come nel paziente con COVID-19 possa manifestarsi una consistente attivazione della coagulazione. In 94 pazienti con infezione virale accertata, l’antitrombina III è risultata ridotta rispetto a 40 volontari sani (p < 0.001). Il D-dimero, la fibrina/FDP ed il fibrinogeno erano, invece, elevati (Han H et al, Clin Chem Lab Med. 2020 Mar 16). L’osservazione è stata confermata in 183 pazienti consecutivamente ricoverati per COVID-19, in cui la mortalità era fortemente influenzata da un più elevato livello circolante di D-dimero e di FDP (p < 0.05). Di particolare rilievo, il 71.4% dei pazienti deceduti versus lo 0.6% di quelli sopravvissuti incontravano i criteri per la diagnosi di coagulazione intravascolare disseminata [Tang N et al. J Thromb Haemost. 2020 Apr;18(4):844-847]. In accordo con ciò, gli stessi autori confermavano sostanzialmente quanto rilevato nella precedente casistica, dimostrando però anche, in 449 pazienti con COVID-19 severa, come il trattamento con un anticoagulante (in genere eparina a basso peso molecolare - EBPM) per almeno 7 giorni tendesse a migliorare la prognosi a 28 giorni, almeno limitatamente ai pazienti con un SIC (Sepsis induced coagulopathy) score ≥4 (40.0% versus 64.2%, p=0.029) oppure un livello circolante di D-dimero > 6 volte il limite superiore della norma (32.8% versus 52.4%, p=0.017) (Tang N et al. J Thromb Haemost. 2020 Mar 27).

L’attivazione della coagulazione, pertanto, sarebbe particolarmente marcata nei pazienti con COVID-19 e ne deteriorebbe in modo consistente la prognosi, tanto da suggerire la necessità di raccomandare fortemente la profilassi con basse dosi di eparina a basso peso molecolare (ad esempio 4000 U/die di enoxaparina) o di fondaparinux (2,5 mg/die) nel paziente ospedalizzato per COVID-19 (https://anticoagulazione.it/index.php/news/la-rubrica-del-prof-prandoni/1404-comunicazione-importante-in-merito-alla-diffusione-dell-epidemia-da-coronavirus-covid-19-in-italia). Secondo l’OMS, tale necessità è determinata dall’elevato rischio di manifestare tromboflebiti, per cui viene raccomandato di usare eparina a basso peso molecolare per via sottocutanea in tutti i pazienti – sia giovani che meno giovani – che non abbiano specifiche controindicazioni (https://www.who.int/docs/default-source/coronaviruse/clinical-management-of-novel-cov.pdf). In non completo accordo con questa preoccupazione, ma come detto nelle raccomandazioni online italiane, dati aneddotici si vanno sommando sulla possibilità che molti pazienti affetti da COVID-19 possano manifestare embolia polmonare anche in assenza di una tromboflebite profonda (Danzi GB et al. Eur Heart J. 2020 Mar 3).

In sintesi, pertanto: 

  1. Condizioni che possono necessitare di anticoagulazione, come la fibrillazione atriale, sono comunemente pre-esistenti nel paziente con COVID-19, influenzandone negativamente la prognosi
  2. L’uso/prosecuzione degli anticoagulanti in questi pazienti è auspicabile, ma può andare incontro a criticità consistenti. Gli antivitamina K, infatti, devono essere controllati mediante INR, cosa che non è sempre facilmente fattibile in questo periodo (https://b-s-h.org.uk/media/18170/inr-testing-for-out-patients-on-warfarin-during-covid-19-restrictions_26-03-2020.pdf)
  3. L’uso dei DOACs appare essere preferibile a quello degli antivitamina K, ma presenta anch’esso alcune criticità, legate alle interazioni con i farmaci specifici per COVID-19
  4. La profilassi con eparina a basso peso molecolare oppure fondaparinux, pur non testata in studi clinici controllati, appare essere fortemente raccomandabile in tutti i pazienti affetti da COVID-19, soprattutto al fine di prevenire una possibile embolia polmonare.